
Introduzione di L. F. Bravo a “Stato e sottosviluppo: il caso del Mezzogiorno italiano” di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini (Feltrinelli, 1972)
Ringraziamo la casa editrice Ombre Corte per il permesso accordato di ripubblicare integralmente il testo che segue.
Prefazione di “Stato e sottosviluppo” (Ombre Corte, 2007)
Adelino Zanini
Io ho sempre ritenuto, da quando ho l’età della ragione, che questo presente assetto sociale sia, almeno sul lungo periodo, insostenibile, perciò mi sono sempre ritenuto se vuole, ideologicamente almeno, un rivoluzionario comunista.
Luciano Ferrari Bravo
1. Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano fu pubblicato nel 1972 da Feltrinelli nella collana “Materiali marxisti”, curata dapprima da Sergio Bologna e Antonio Negri, poi dal Collettivo di Scienze politiche dell’Università di Padova. Sarà ristampato quattro volte (1973, 1975, 1977, 1980), per un totale di cinque edizioni e di alcune migliaia di copie: un quantitativo oggi impensabile anche per un saggio divulgativo di successo – ciò che quel libro, per di più, non era. Finirà nelle mani di ricercatori, studenti, militanti, presidenti di corte d’assise: «Lei indubbiamente ha vissuto una certa esperienza nell’arco dell’Università di Padova ed ha scritto – credo sia sua – una vecchia monografia sulla questione meridionale che mi è capitata una volta tra le mani»1.
Che Stato e sottosviluppo fosse capitato nelle mani anche del dottor Severino Santiapichi, e non come materiale “probatorio” di un processo monstre, non può dunque stupire. Il saggio conobbe effettivamente una circolazione significativa, proprio perché, a dispetto della sua dichiarata intenzione sovversiva, non gli si potevano negare i crismi di una ricerca scientifica seria e documentata (finanziata con fondi CNR). Del resto, questi attributi caratterizzeranno tutti i volumi accolti nella stessa collana. Nel corso di un decennio (1972-1982), oltre ai testi prodotti nell’ambito del seminario del Collettivo di Scienze politiche, “Materiali marxisti” accoglierà, tra gli altri, scritti di G. Bock, G.P. Rawick, F. Fox Piven, R.A. Cloward, J. O’Connor, K.H. Roth, etc. Tutti – bona tempora currebant – conosceranno una diffusione significativa, divenendo strumenti fondamentali nella formazione di una generazione di militanti: e non solo, perché erano testi di studio, stricto sensu. Oggi, introvabili, sono dei classici del pensiero critico.
Alla diffusione, particolarmente ampia, di Stato e sottosviluppo – composto di due saggi distinti, dedicati al tema degli istituti di programmazione in Italia e, quindi, alla vicenda complessiva del “piano” – concorse, probabilmente, anche l’oggetto dell’analisi. Pur non essendo affatto un testo inquadrabile nella infinita “quistione meridionale”2, ad essa si rifaceva e d’essa dava una spiegazione del tutto inedita, senza tacere – com’è ribadito nella Nota introduttiva – «alcune effettive diversità di valutazione o di accentuazione» presenti nei due saggi che compongono il libro. Le differenze al loro interno risultano inoltre dall’approccio – per non dire della pur significativa diversa estensione. Quello di Luciano Ferrari Bravo è di tipo comparativistico, interessato a definire l’istituzionalismo giuridico3 sotteso alla “scelta politica”, tenendosi ben lontano dall’«approccio statico proprio dei costituzionalisti»4. L’approccio di Alessandro Serafini è focalizzato, più semplicemente, sull’evoluzione quantitativa del mercato della forza lavoro in rapporto ai fenomeni migratori – tema su cui egli tornerà nel saggio compreso in L’operaio multinazionale in Europa (1974).
Di testo politico in ogni caso si tratta: maturato dentro e dopo il ’68, indirizza una critica serrata alla proposta comunista di saldare l’alleanza tra contadini del Sud e operai del Nord; assume come propria l’ibridazione avvenuta nella nuova composizione di classe; fissa la contraddizione tra l’illusione riformistica di trattenere il “terrone” fuori dal circuito della mobilità e, contemporaneamente, il bisogno capitalistico di farne classe operaia. Fortissima e sempre argomentata la “presa di partito”, il quadro d’insieme che emerge è di certo unitario, ma l’articolarsi dell’argomentazione non può che risultare, a distanza di trentacinque anni, molto diverso quanto ad efficacia.
Non mi è dato sapere – né è forse importante saperlo – quanto questa ricerca avesse contato nelle vite dei rispettivi autori. Certo è che rimarrà “il” libro a loro firma. Non meno certo è che LFB, sia pur in circostanze “costrette”, ricorderà come la stesura del saggio di fatto coincidesse con il suo «banalissimo ritiro a vita privata»5 (primavera 1970), frutto non di una rottura politica, ma conseguente a «ragioni essenzialmente di carattere personale», alle quali era congiunto «il bisogno di concludere quella ricerca a cui lei [Presidente del collegio giudicante] ha fatto cenno (…)»6. A ritornare «sul carattere del tutto illusorio di questo sottrarsi al destino collettivo di una generazione», LFB sarà però costretto dall’infame accusa; se è vero, almeno, che alla mancata presenza ai cancelli di Porto Marghera fece da contrappeso un intenso lavoro universitario, finalizzato a tenere le fila della ricerca svolta all’interno dell’istituto di Scienze politiche7. Insomma, il legame nella ricerca non conosce soluzioni di continuità, perché, settanta anni dopo Weber, non è dato vedere «chi possa seriamente ritenere di tranciare con un semplice fendente il mondo del lavoro intellettuale da quello dei valori politici che lo attraversano»8.
2. Il quadro macroeconomico di riferimento è quello delineato – tra la prima metà degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo – a partire dal Programma economico italiano a lungo termine 1948-1949/1952/53 – presentato dal governo italiano all’OECE –, a cui farà cronologicamente seguito la definizione, tra il 1949 e il ’52, del Piano del lavoro da parte della CGIL; quindi, nel 1954, il cosiddetto Schema Vanoni; per giungere nel ’62, superata la fase della ricostruzione, alla Nota aggiuntiva La Malfa. Ora, a prescindere dalle distanze più che significative rilevabili, ad esempio, nel confronto tra Schema Vanoni e Nota La Malfa – per non dire dell’operato di Morandi e Saraceno alla Svimez, del Progetto Giolitti del ’64 e del successivo Piano Pieraccini del ’67 –9, va detto che la cornice che racchiudeva tale quadro era tuttavia molto più consunta. Il dibattito sulla programmazione economica era frutto diretto del più vecchio contrasto tra liberisti e pianificatori, già riemerso negli ultimi anni del regime fascista. Un dibattito che si concluse con la vittoria dei primi – su ciò la storiografia è unanimemente concorde – e rispetto al quale la Sinistra comunista – diversa era la posizione socialista – rimase sostanzialmente alla finestra10. Una “politica di piano” senza pianificatori?11
Dunque vinsero i “liberisti”, dunque vinse il “mercato”, vinse la concezione e la pratica di uno sviluppo fondato ancora sulla “anarchia delle forze produttive”. Ma come avvenne questo? Come mai su una ideologia indubbiamente più avanzata e che prometteva uno “sviluppo senza squilibri” prevalse in fondo la vecchia fede ottocentesca nel sistema “che si autoequilibra”, cioè la vecchia fede capitalistica di riuscire, con la sola forza materiale immediata, a dominare la classe operaia riducendola continuamente a forza lavoro, senza organizzazione, dentro la fabbrica, a “domanda” fuori della fabbrica? (p. 116).
In breve, in cosa consistette la “svolta del ‘50”? Le risposte – questo ci dicono LFB e AS – bisogna cercarle non nell’ambito di una cornice consunta, ma, anzitutto, nel passaggio della società meridionale da un rapporto di separazione ad uno di integrazione; un passaggio la cui realizzazione trasforma l’arretratezza in risorsa dello sviluppo. Pianificazione e sottosviluppo diventano termini complementari, più che antitetici, perché il sottosviluppo non è solo il “non ancora” sviluppo, e non è neppure solo il “prodotto” dello sviluppo. «Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica. Ciò che, determinandosi, significa: funzione del processo di socializzazione capitalistica, della progressiva costituzione del “socialismo” del capitale. Sviluppo è infatti quello del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, nel suo “governo” della società – del suo stato» (p. 29). Nello specifico, il sottosviluppo non è quindi tanto un mancato incremento nel tempo del prodotto pro capite – frutto perverso di un dualismo economico insanabile12 –, quanto una funzione di piano dietro la quale vi è non l’“anarchia delle forze produttive”, bensì la sintesi statuale esercitata per mezzo degli istituti di programmazione.
Riforma agraria e istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (agosto ’50) furono gli strumenti che meglio riuscirono a «battere la carica eversiva che le lotte esplose nelle campagne avevano manifestato» p. 124). Di qui in avanti, la possibilità di usare il “fenomeno migrazione” a fini di profitto fu garantita. Il tratto congiunturale dei provvedimenti non può essere negato; ma, dal ’50 in poi, «il filo rosso che collega l’intervento straordinario è la progressiva concentrazione dell’esercizio della funzione di mediazione politica negli organi statali o, meglio ancora, governativi, rappresentati dalla Cassa e dall’insieme degli altri istituti che a essa fanno capo» (p. 125). I contatti con gli avamposti di un ampio esercito industriale di riserva erano stabiliti.
Il paradosso che si può insinuare è chiaro: dove starebbe l’interesse capitalistico a pianificare l’arretratezza? La risposta degli autori è però pronta: «Quando mai il capitale ha fatto suo il punto di vista dell’arretratezza? Sono le ragioni del suo sviluppo a dettare la sua politica, anche quella nei confronti delle “aree depresse”, mai viceversa» (p. 127). Detto altrimenti, ciò che va sottolineato non è tanto il riemergere dell’emigrazione e della mobilità come tratti specifici della società meridionale, quanto il fatto «che esse vengono, questa volta, per la prima volta, sottoposte ad un controllo sia pure indiretto, dello stato – ad una organizzazione di governo sia pure “sui generis”» (p. 46). Un controllo che, fino al ’57, si esercita effettivamente e con efficacia sulla forza lavoro ridotta a funzione sul “mercato del lavoro”; sino a che, in sostanza, con la Legge n. 634 del 29 luglio 1957, si cercherà di definire gli opportuni provvedimenti per l’industrializzazione del Mezzogiorno, resi necessari e più urgenti dai fenomeni migratori perduranti e, ora, anche soggettivamente connotati. La nozione marxiana di esercito industriale di riserva si rivelava, a questo punto, molto più problematica, perché soggettivamente ambivalente – caratteristica su cui LFB e AS insistono e di cui rendono conto adeguatamente.
In effetti, un ciclo andava chiudendosi, la pressione estera diventava più forte, i vantaggi comparati dell’industria italiana erano via via ridotti dal progresso tecnologico d’oltralpe. In questo passaggio, è tutta la strumentazione istituzionale dell’intervento che fa un salto in avanti. Nuovi soggetti partecipano alla gestione dell’arretratezza: sono le industrie pubbliche e i consorzi industriali, rispetto ai quali, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno assume la funzione di mediatore politico diretto. La gestione dell’arretratezza è sempre più gestione dell’integrazione, è risorsa dello sviluppo, con a fronte, tuttavia, una forma-salario sempre meno remunerazione del lavoro e sempre più «variabile strategica, centrale, politica dell’accumulazione capitalistica» (p. 146).
3. Di questa articolazione macroeconomica complessiva, il saggio di LFB – che pure si apre con una raffinata disamina del dualismo economico italiano – offre una rappresentazione particolarmente attenta al ruolo giocato dagli istituti della programmazione, a partire dall’arretratezza delle istituzioni, dalla strozzatura amministrativa – già individuate nel giugno del ’50 dalla Svimez –, a sanare le quali lo “stralcio” di riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno erano almeno in parte rivolti. Non si tratta di una inversione generale – avverte l’autore – ma nemmeno di una mera prosecuzione dell’intervento “storico”, nei suoi termini tradizionali, ovvero di un suo aggiornamento quantitativo. Il nuovo profilo istituzionale è decisivo e innovativo, perciò cruciale, e tale rimarrà anche dopo l’esaurirsi della “vocazione” meridionalistica.
La ricostruzione della vicenda può qui partire dal “livello” istituzionale, dal nuovo apparato costituito per gestire la nuova politica per il Mezzogiorno – deve anzi partire di qua per verificare una serie di ipotesi illustrate fin dall’inizio (…) [e per] saggiare la consistenza della tesi più volte annunciata secondo cui, nella particolare vicenda meridionale in questa fase è proprio il livello istituzionale quello decisivo (…) (p. 51).
In cosa consista la decisività è subito detto: si tratta della dialettica tra specialità e globalità. L’apparato complessivo dei provvedimenti straordinari per il Mezzogiorno poggia su di un ente ed una normazione speciali, cioè diversi rispetto all’amministrazione ordinaria, i quali si devono però misurare con la globalità del contesto meridionale. Nel passato, le leggi speciali erano qualificate tali perché non pensate come parti di un “sistema”; la svolta degli anni ’50 è caratterizzata, sul versante pratico-normativo, dalla riconosciuta necessità di un’organizzazione sistemica dei provvedimenti, capace di tenere insieme i rapporti «tra piano generale pluriennale degli interventi e programmi annuali della Cassa e i dimensionamenti interni tra intervento straordinario ed ordinario e tra i vari settori di destinazione della spesa» (p. 52). Significativi, al proposito, i mutamenti a cui sarà sottoposto il vincolo di bilancio, di fatto ampiamente depotenziato in funzione di una discrezionalità legata al piano della Cassa e svincolato dal criterio di annualità.
Tratto specifico della dialettica fra specialità e globalità dell’intervento straordinario è il suo carattere attivo-innovativo. A fronte della palese inutilizzabilità degli strumenti giuridico-amministrativi esistenti, la Cassa come ente speciale sorpassa la sua stessa specialità, mostrando l’irriducibilità del nuovo istituto al quadro dei modelli organizzativi tradizionali e alla settorialità che li connota. Ciò non può togliere, evidentemente, il riferimento contestuale (si tenga presente il parallelo con la Tennessee Valley Authority); tuttavia, dimostra come non di una gestione statica dell’arretratezza si trattasse, bensì di un governo attivo, dinamico e flessibile dello sviluppo nei suoi passaggi verso una società industriale. Di qui l’importanza dell’approccio intersettoriale, giacché la straordinarietà riguarda non le opere, ma l’intervento istituzionale; pertanto, essa risulta essere sostitutiva, più che aggiuntiva, rispetto ai provvedimenti ordinari.
Il carattere di straordinarietà non esaurisce però la definizione dell’operato della Cassa; ovvero, la straordinarietà, se si vuole, è tale solo in quanto connota una nuova istituzione di governo, «nel duplice senso che essa è strumento, articolazione diretta della figura costituzionale specifica posta al vertice del potere esecutivo e, in secondo luogo, ad essa è formalmente attribuito un ruolo preminente ed attivo nei confronti di tutta la circostante, multiforme varietà di soggetti pubblici, dello stato o meno, che insistono sulla stessa area di intervento» (pp. 61-62). Fondamentale, al riguardo, sarà il già sottolineato ruolo svolto dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, al contempo organo di pianificazione generale e strumento di direzione politica specifica: funzioni rilevanti non per il loro cumularsi, ma per il loro interagire autolegittimantesi.
Il complesso rapporto tra straordinarietà e ordinarietà dei provvedimenti qualifica così anche la gestione tradizionale delle attività dello stato nel Mezzogiorno, insistendo non sulla sussidiarietà ma sulla straordinarietà. La natura pianificatoria delle politiche meridionalistiche è in questo senso lontana da un’impostazione interamente rivolta ad una funzione di sostegno e alimentazione della vecchia struttura politica clientelare; non perché questo tratto fosse del tutto assente, ma in quanto «proprio il rapporto con l’esecutivo, le caratteristiche interne, anche istituzionali, del progetto alzano il livello della decisione politica, almeno potenzialmente, fin dall’inizio, fuori assolutamente della portata strategica del clientelismo (…)» (p. 73).
L’istituzionalismo economico e giuridico su cui il testo di LFB insiste ha ovviamente un riferimento storico-politico ben chiaro e saldo: il controllo globale della mobilità dell’esercito industriale di riserva, nella misura, nei ritmi, nelle direzioni. Tant’è che se questo è il presupposto generale della politica di piano, sarà anche il primo a saltare. Non a caso, a fronte dell’insuccesso dello Schema Vanoni, ed anzi a partire dalla riflessione sul suo fallimento, si verrà definendo – in particolare ad opera di Saraceno – un’impostazione effettivamente nuova delle politiche per il Sud. Esigenza dell’industrializzazione, investimenti a capitale intensivo, forma della grande impresa, ruolo dell’impresa pubblica, divengono nuove parole d’ordine, rispetto alle quali, la mobilità spontanea e soggettiva della forza lavoro liberata dagli interventi già realizzati dev’essere controllata e organizzata dentro il rapporto capitalistico in quanto tale. Impresa pubblica, poli di sviluppo, consorzi industriali, pongono non più il problema della pianificazione del sottosviluppo, ma del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo. Gli anni ’57-’58 aprono la seconda fase dell’intervento.
Da questo punto di vista, il “secondo tempo” si configura come tentativo di anticipare non una soluzione della pianificazione meridionale, ma una sua forma di governo.
[…] i fenomeni che vogliono essere regolati segnano infatti la fine “oggettiva” del carattere materialmente (e soggettivamente) separato della depressione meridionale. […] Il fatto è che la dimensione “meridionale” del piano non basta più – o non basta più da sola. Il fatto è che la mobilità non si presenta più come fatto solo “oggettivo”: si è incontrata e si presenta sempre più come insubordinazione, come lotta operaia (p. 89).
Il “secondo tempo” coincide con l’avvio di un nuovo ciclo di lotte operaie, appunto, che pongono la pressione salariale «come organica a livello di sistema». La Nota aggiuntiva La Malfa assumerà la questione all’interno della proposta di “politica dei redditi”, sottolineando però e perciò come il problema stesse nelle condizioni dell’accumulazione e nel rilancio dello sviluppo italiano. Una politica di piano concernente il Mezzogiorno si consolida, ma all’interno di un’ipotesi allargata e generalizzata, affidata ad uno strumento centrale di pianificazione: non a caso, fin dal ’61, La Malfa aveva proposto di sciogliere la Cassa per trasformarla in organo centrale di pianificazione.
La politica di piano si consolida e fallisce, contemporaneamente: ed ecco quindi il «primo piano quinquennale di sviluppo e, d’altra parte, il riconoscimento, la prosecuzione, l’approfondimento della politica speciale per il Sud, che rimane in vita come politica speciale e non riesce a superare, come sembrava potesse, ad un certo punto, la soglia del passaggio ad ipotesi generale di sviluppo del paese» (p. 97). Fallisce, allo stesso tempo, a fronte dell’insubordinazione ormai generalizzata: «il ciclo di lotte che corre parallelo alla vicenda studiata, intrecciandovisi continuamente, è andato avanti per suo conto, ben al di là di ogni previsione che fosse possibile farne al suo primo manifestarsi e ha espresso una composizione di classe – sul mero terreno della propria “autonomia”, ma di una autonomia irriducibile – che si rivela sempre più incompatibile con qualsiasi ipotesi generale di politica dei redditi (…)» (p. 94). Fallendo, la politica di piano si propone tuttavia come modello di governo politico. Questa la conclusione a cui LFB giunge e a partire dalla quale enuclea, pur in breve, alcuni aspetti essenziali di quel modello, della «figura generale dello stato come stato-impresa», senza mai appiattirla, però; anzi, insistendo, ancora una volta, su di alcune articolazioni di scienza dell’amministrazione, con originalità e scrupolo.
4. Originalità, scrupolo – una parentesi. LFB era in grado di accettare e misurarsi con la più provocatoria delle ipotesi teoriche, salvo poi smontarla, spesso ribadendo principi condivisi, che nel suo argomentare riacquistavano tuttavia una radicalità originaria13. Incisivo – quanto rispettoso e signorile, sempre, anche nel “gesto” più amicale – era poi il suo obiettare, capace di muoversi contemporaneamente, con assoluta naturalezza, tra Marx e Mille plateaux, spiazzando di sovente l’interlocutore:14 Luciano aveva sempre già letto “quel” libro, e non aveva bisogno di dirlo. Ciò solleva una questione più generale di stile di pensiero e di metodo, a partire dalla complessità espositiva dei suoi scritti, la quale, spesso, ti costringe alla rilettura15, per essere finalmente certo di aver colto la fatica del concetto. La ricchezza e l’uso delle fonti – sempre aggiornate – fanno il resto. Questo è vero in particolare per il saggio di cui stiamo discutendo, ma lo stesso vale per Il New Deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, compreso in Operai e stato (1972), per il lungo saggio che introduce Imperialismo e classe operaia multinazionale (1975), per le voci scritte per il Lessico postfordista (2001)16. La parte più nobile dello stile accademico, rigore, severità e “divertimento intellettuale” si sposano perfettamente17. Da poco uscito dalla galera, lo incontrai, all’Istituto di sociologia di Padova, nell’ambito di una discussione su Keynes e dintorni. Occhio acceso, sorriso accogliente, sigaretta tra le dita, sembrava non essersi mai mosso dalla sua università. Di proferire il suo “Heri dicebamus”, non ne ebbe bisogno, mai (seppur il diritto al reintegro in ruolo gli costasse non poco); forse, perché il suo contributo più alto, intenso, completo, lo dette proprio nell’insegnamento, nella produzione di un sapere che, o t’afferra la vita, o non vale nulla18.
Un confronto con il meridionalismo, vecchio e nuovo? Non di questo – o solo in piccola parte di questo – tratta Stato e sottosviluppo. L’oggetto è altro, perché altro è il metodo e altra è la sensibilità politica, già interamente espressi nel saggio dedicato al New Deal, che appare essere il modello base a cui LFB attinge per identificare quelli che sono stati i criteri di movimento delle istituzioni politiche nell’ambito della pianificazione economica capitalistica per antonomasia. In quel «massimo dinamismo istituzionale», in quell’«enorme moltiplicarsi di enti, organi, agencies» – egli sottolinea –, non c’è nulla di casuale, perché ognuno di essi svolge funzioni precise.19 Il quadro interpretativo è quello, trontiano, della società-fabbrica, con la conseguente messa in crisi «di una perfetta democrazia sul terreno economico», sempre raffrontata alla funzione del salario20. Ma quanta originalità d’approccio e di pensiero c’è, ad esempio, nel sottolineare, contestualmente, il dislocamento degli equilibri costituzionali! Un discorso analogo potrebbe essere fatto per quanto riguarda il rapporto sviluppo/sottosviluppo, letto e riletto in Vecchie e nuove questioni nella teoria dell’imperialismo, le cui pagine finali dedicate ad A. Emmanuel insistono, significativamente, sulla forma-salario come espressione di una soggettività politica irriducibile a semplice categoria economica, ancorché identificata in termini di variabile conflittuale à la Sraffa. In entrambi i casi, troviamo lo schema di Stato e sottosviluppo: istituzionalismo giuridico e autonomia operaia, mai banalmente contrapposti, sempre problematicamente intrecciati. Ma che l’intreccio non riduca l’autonomia, questo è, per LFB, fuori discussione.
Prima di scrivere queste pagine, immaginavo – devo ammetterlo – che sarebbe stata necessaria una ragionevole argomentazione circa la normale in-attualità di un libro pensato e scritto più di trentacinque anni or sono. Bene, così non è stato. Certo, nulla e nessuno può sottrarsi al gentile insulto del tempo – gli stessi autori, introducendo il lavoro, lo dichiaravano già “datato”! Del resto – per parafrasare LFB –, un secolo dopo Weber, non c’è chi non sappia quale contingenza avvolga ogni fatica scientifica. Ma come non vedere l’attualità vera di «una metodologia interpretativa che lega strettamente processi di governance e trasformazioni della composizione di classe», e per la quale appare «riduttivo parlare solo di una funzione statuale di mediazione, di arbitraggio, di composizione dei conflitti», così come riduttivo appare il «parlare di assetti istituzionali dedicati alla rappresentanza degli interessi e alla composizione dei conflitti»?21 Di questa lezione, Stato e sottosviluppo è ancora un esempio che per essere ricordato non necessita affatto della benevolenza delle rimembranze.
E dopo c’è il metodo. Uno “scenografo del metodo scientifico” – è stato definito LFB –, abilissimo nella sospensione e riarticolazione del giudizio. Ma, altresì, un razionalista assoluto, che non concede, né si concede, vie di fuga. Che fosse anche un materialista – ça va sans dire22. Di un nuovo istituzionalismo giuridico abbiamo già detto; che cosa esso implicasse, mi pare evidente: la forte e costante soggettivazione dell’analisi. Non c’è altro modo di intendere le pagine di Stato e sottosviluppo se non sulla base di questa soggettivazione: «a reimporre il Sud come problema sono state, prima di tutto, le “catene” della Torino “meridionale” del ’68-‘69» (pp. 19-20). Non c’è parafrasi più immediata dell’Einleitung del ’57: «Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti… » – eccetera. E poi la dialettica tra plusvalore assoluto e relativo, tra massa e saggio del plusvalore: insomma, l’universo “sintetizzato” nel Frammento sulle macchine – su cui LFB tornerà nel ’96, con grande lucidità –, anticipato dallo studio, scrupoloso sino al dettaglio, «per scassinare e ritrovare il filo rosso del ragionamento comunista de Il Capitale»23. La soggettivazione dell’analisi aveva quindi solide fondamenta su cui costruire, potendo attingere al lavoro delle riviste (“Quaderni rossi”, “Classe operaia”), alla sintesi magistrale di Mario Tronti, al lavoro comune nel seminario padovano, ad un rapporto unico con Toni Negri, alla militanza politica – certo, a suo modo “fino in fondo”, com’egli amava dire: perché, probabilmente, fu sempre il primo a misurare a distanza dovuta la «sua idea di rivoluzione»24.
Difficile, oggi, spiegare come lavoro scientifico e lavoro politico stessero insieme. Ma quest’intreccio, per vent’anni e più, funzionò davvero. Quanto al dopo – un dopo di cui Sandro, impegnato in uno studio dedicato alle istituzioni economiche europee, fu ancor prima privato da una sorte feroce –, le tracce di ricerca che LFB ha delineato nel decennio che va dal 1990 al 2000 hanno in sé la lucidità e la pacatezza di sempre. Si tratta ancora del “lungo” – e credo ininterrotto – ragionamento sulle “categorie del politico” – ma attenzione, alla sua maniera: costituzione, forma-processo, corruzione e politica, sovranità, etc. Mi piace tuttavia insistere sull’intelligente riattraversamento del Frammento sulle macchine, perché in poche pagine ci sta, ripensato, il nocciolo duro e indigerito dell’operaismo – «(…) il nostro problema: quale rapporto, oggi, tra lavoro e azione politica?»25.
1 Interrogatorio (1983), in L. Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, prefazione di S. Bologna, manifestolibri, Roma 2001, p. 203.
2 Le due principali linee di pensiero meridionalista presenti nel dopoguerra sono, come noto, quella comunista (G. Amendola, La democrazia nel Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1957) e quella cosiddetta democratica (per tutti, M. Rossi Doria, Riforma agraria e azione meridionalista, Edizioni Agricole, Bologna 19562; P. Saraceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Giuffrè, Milano 19742). Diversa e distinta sarà la posizione socialista: R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica, Einaudi, Torino 1960.
3 A. Negri, Luciano Ferrari Bravo. Ritratto di un cattivo maestro, manifestolibri, Roma 2003, p. 52.
4 S. Bologna, Prefazione, in Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione, cit., p. 8.
5 Al Dottor Giovanni Palombarini, in Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione, cit., p. 187.
6 Interrogatorio (1983), cit., p. 205.
7 Negri, Luciano Ferrari Bravo, cit., p. 75.
8 Al Dottor Giovanni Palombarini, cit., p. 186.
9 Cfr. A. Musacchio, Politica di piano, in Scienze politiche 1 (Stato e politica), a cura di A. Negri, Feltrinelli Fisher, Milano 1970.
10 Cfr, in breve, l’Introduzione di P. Barucci a Saraceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), cit.; quindi, A. Macchioro, Il keynesismo in Italia nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, in Studi di storia del pensiero economico, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 628-652.
11 Cfr. G. Fuà, P. Sylos Labini, Idee per la programmazione economica, Laterza, Bari 1963; S. Lombardini, La programmazione: idee, esperienze, problemi, Einaudi, Torino 1967. Ma vedi anche M. Carabba, Spesa pubblica e iniziativa imprenditoriale, Einaudi, Torino 19682; S. Leonardi, Democrazia di piano, Einaudi, Torino 1967. Sempre di particolare interesse, inoltre, è G. Ruffolo, Rapporto sulla programmazione, Laterza, Bari 1973, in cui si traccia un bilancio del decennio precedente.
12 Per tutti, V. Lutz, Italy. A Study in Economic Development, Oxford University Press, London 1962.
13 A mo’ d’esempio (tralasciando le esperienze personali dirette…), cfr. i saggi Lavoro e politica (“Derive e approdi”, 1996, nn. 9-10) e Homo sacer (“Futuro anteriore”, 1996, V), ora entrambi in Dal fordismo alla globalizzazione, cit.
14 P. Virno, Negli anni del nostro scontento, “Derive Approdi”, 2001, n. 20, p. 107.
15 C. Marazzi, Libri donati, “Derive Approdi”, 2001, n. 20, p. 105.
16 I tre volumi furono pubblicati da Feltrinelli.
17 Bologna, Prefazione, cit., p. 9.
18 Ivi, p. 35.
19 Il New Deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, in Operai e stato, Feltrinelli, Milano 1972; ora in Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione, cit., p. 60.
20 Ivi, p. 66.
21 Bologna, Prefazione, cit., p p. 11.
22 Negri, Luciano Ferrari Bravo, cit., pp. 27, 39, 52, 54.
23 Ivi, p. 27.
24 Bologna, Prefazione, cit., p. 35.
25 Lavoro e politica, cit., ora in Dal fordismo alla globalizzazione, cit., p. 242.